Ritratti: Erik Satie e le sue magnifiche ossessioni

In caso di pioggia aveva sempre l’ombrello che teneva rigorosamente chiuso, non lo apriva neppure per ripararsi da una cascata d’acqua staccatasi da una nuvola, è piacevole ricordarlo così, a spasso nei boulevard di Parigi, imperturbabile, con l’immancabile bombetta e un completo rigorosamente di velluto. Era un dadaista, che non amava bagnare l’ombrello. La mattina del 2 luglio del 1925, monsieur Erik Satie, dovette sottostare a causa della sua morte improvvisa alla curiosità dei molti ai quali aveva negato l’accesso al suo appartamento, ma in particolar modo si era sempre rifiutato di fare entrare gli amici, gli ospiti , i familiari inclusi, in una stanza divenuta celebre per la sua inaccessibilità. Nessuno aveva mai potuto visitarla, era sempre chiusa a chiave, solo lui, il proprietario ne conosceva il contenuto, ma il giorno prima del 2 luglio lui morì.

Era un genio pieno di bizzarria, pianista fantasioso, uno dei compositori piu’ originali del 900, forse l’ultimo o il primo di quel genere. Scrisse molte opere di successo. la prima delle sue Gimnopedie è con tutta probabilità il brano per pianoforte piu’ suonato, anzi forse il più abusato al mondo. Non disdegnava l’avanguardia musicale, sperimentava le sue opere su un pubblico assolutamente colto, lo metteva alla prova come nel caso di “Vessazioni,” un pezzo assolutamente semplice ma ripetuto quasi all’infinito, per ben 841 volte continuative, durava in pratica per chi resisteva all’ascolto 12 ore. Viveva nel suo appartamento insieme alla fama che si era guadagnata componendo musica in pochissimi metri quadrati, che lui amava definire “armadio,” diceva molto ironicamente “vivo in un armadio. Satiè non sapeva amministrare i suoi guadagni e viveva come un pezzente, si congedava dopo le serate e si rinchiudeva nel minuscolo bilocale quasi privo di arredamento, con lo stretto indispensabile, una branda in cui dormiva, il pianoforte e poco altro, questo riferito alla prima stanza, ma l’altra cosa conteneva? La stanza inaccessibile, quella che fu sempre motivo di curiosità, per chi gravitava intorno a lui?

Nessuno lo sapeva, ma poi la serratura fu divelta il giorno dopo la sua morte, e quel mistero fu svelato e si spezzò. Il locale conteneva una interminabile collezione di ombrelli di vario genere che Satiè non usava mai perchè non si sciupassero, insieme a diversi capi di abbigliamento, ripetitivi come le sue note, vari completi di velluto con una caratteristica comune, erano tutti identici. Una delle idee fisse di Erik era il numero tre, forse rappresentava un’ossessione mistica o una reliquia del simbolismo trinitario associato all’Ordine Cabalistico dei Rosacroce, del quale aveva fatto parte in età giovanile. Molte delle sue composizioni sono raggruppate in cicli di tre, originalissima le “Trois Gymnopédies” del 1888. Un giorno Satiè, seduto ad un caffè in compagnia di Fernand Léger, il suo compagno gli disse” Sai bisognerebbe creare della musica d’arredamento, cioè una musica che facesse parte dei rumori dell’ambiente in cui viene diffusa, o ne tenesse conto. Dovrebbe essere melodiosa, in modo da coprire il suono metallico dei coltelli e delle forchette senza però cancellarlo completamente, senza imporsi troppo. Riempirebbe i silenzi, a volte imbarazzanti, dei commensali. Risparmierebbe il solito scambio di banalità. Inoltre, neutralizzerebbe i rumori della strada che penetrano indiscretamente dall’esterno”. Frequentò Debussy e Cocteau, Ravel suonò i suoi pezzi, e per quello cominciarono a chiamarlo maestro, quelle note erano talmente stravaganti che conquistarono anche Picasso. Erik Satiè fece una vitaccia, segnata da forti inimicizie ma anche da grandi e fortissime amicizie, con alcuni finì anche a cazzotti.

Ebbe una vita all’insegna dell’arroganza, spesso compromessa dalle miseria e dallo sconforto, povera di amori ma in compenso colma delle sue fissazioni. Fu congedato dal servizio militare per bronchite acuta, così era scritto nel documento di congedo che porta la data del 1886, ma sembra che si fosse procurato appositamente quella malattia, perchè di fare la recluta presso l’esercito, non ne aveva alcuna intenzione. Amava leggere, suonare il pianoforte e comporre, scriveva magnificamente, si era prefissato di emergere e avanzare nel mondo dell’arte, che allora per quelli all’avanguardia come lui, era un reticolato a maglie strette e non lo aiutava certo il bel carattere che si ritrovava. Mandò una partitura all’Opèra di Parigi, non ricevette risposta, allora sfidò a duello il direttore. E noi nel 151esimo anno dalla morte di questo compositore strambo e attualissimo, siamo ancora estasiati e all’ascolto delle sue “magnifiche ossessioni”.

Maria Grazia Vannini