L’Ora della Storia. Il calabrese Luigi Galeni, Uccialì, da barbaro a Capitano del Mare

Chiunque abbia passato un’estate sulle coste dell’Italia del sud le avrà notate. Sono le torri di avvistamento da cui doveva partire l’allarme in caso di incursione saracena. Perchè fino alla fine del 1600 non era improbabile che un paesino della Campania o della Calabria fosse oggetto di uno sbarco di pirati musulmani.

Di solito razziavano tutto quello che potevano imbarcare sulle loro agili navi ma spesso rapivano anche giovani donne e ragazzi che venivano venduti come schiavi nei porti del Mediterraneo.Pure non sempre poteva essere una disgrazia essere rapiti. Era paradossalmente un modo per sfuggire comunque ad un destino di miseria e di immobilità sociale in un sud ancora largamente feudale. In molti finivano per convertirsi all’Islam. I cristiani li definivano rinnegati e spregiativamente li chiamavano “retagliati” alludendo alla circoncisione necessaria per aderire alla nuova fede.

Qualcuno di questi faceva carriera al servizio del sultano. Per esempio Gian Dionigi Galeni, meglio noto come Occhialì o Uccialì, calabrese di Le Castella. Era nato nei primi decenni del 1500 (manca una data esatta ovviamente) e morì, ricco e famoso a Costantinopoli, passati gli ottant’anni. Un giorno d’estate del 1536 il temuto pirata Barbarossa (Khair ad-Din) anch’egli un rinnegato slavo, al comando di una piccola flotta si presentò sulle coste calabresi e il ragazzo Gian Dionigi faceva parte del bottino. Venduto al mercato degli schiavi fu comprato da un certo Giafar, anche lui pirata, al quale servivano braccia per la sua galea. Fu subito messo ai remi ma Dionigi, piccolo e debole, non poteva reggere quella vita. Ma si era fatto notare per una certa intelligenza che non era sfuggita a Giafar che decide di destinarlo al suo servizio personale nella sua dimora.

Lì riesce a conquistare le simpatie della moglie del pirata suscitando l’odio e l’invidia degli altri schiavi cristiani che cercano di ucciderlo. Non ci riescono, è lui che uccide uno di loro ma la condanna prevista per uno schiavo che ne uccida un altro è la morte. Giafar, che vorrebbe salvargli la vita, gli propone di convertirsi all’Islam e Dionigi non esita a farlo.Da quel giorno comincia una nuova vita sulle navi pirata saracene dove, grazie alla sua intelligenza, scala pian piano la gerarchia divenendo capitano di una piccola flotta che si muove tra Algeri, Tunisi, Tripoli e ovviamente Istanbul.

Nel 1562 il sultano lo nomina capitano della squadra d’Alessandria, e si racconta che sarebbe sbarcato nel luogo natio carico di doni per la vecchia madre. E questa, salda nella fede cristiana, li avrebbe rifiutati. Ma questa è una leggenda senza alcun fondamento storico. Nel 1563 ancora incursioni piratesche sbarca il 31 maggio a Chiaia e immediatamente sequestra ventiquattro persone ché il viceré di Napoli, il duca d’Alcalá Pedro Afán de Rivera, si premura di riscattare prima che riparta. Partecipa poi all’assedio di Malta, colle sei galee della guardia d’Alessandria nelle quali sono imbarcati seicento soldati. Ottiene il governatorato di Tripoli. Con alterne fortune continua la sua carriera di pirata sempre attento però ai suoi uomini che non vuole sacrificare in imprese senza possibilità di successo.

Nel 1568 si frappone il sultano lo nomina  viceré d’Algeri. Una bella promozione. “Occhialì bassà d’Algeri”, lo chiama il bailo veneziano Marcantonio Barbaro. “Re d’Algeri” lo chiamano i marinai che ad un tempo lo ammirano e lo detestano per il suo rinnegamento e che lo rende vieppiù famigerato. Nell’ottobre del 1569 combatte contro la Spagna  con un robusto contingente di 4 o 5000 giannizzeri che strada facendo si gonfia di volontari per riconquistare Tunisi in cui il 19 gennaio 1570 entra senza incontrare resistenza. E ci rimane un paio di mesi, per poi tornare – lasciandovi una grossa guarnigione e affidandone il governo a un suo luogotenente, il rinnegato corso Cayto Ramadan – ad Algeri.Ma la fortuna dei pirati sta volgendo al termine. Il mondo cristiano si coalizza e prepara la riscossa con la battaglia di Lepanto dove la potenza navale turca sarà annientata. Vi partecipa anche il nostro che anzi è uno dei pochi comandanti che, dopo aver inflitto non poche perdite ai cristiani, riesce a tornare a Costantinopoli con la sua squadra navale quasi intatta. Perito a Lepanto il Kapudan, ossia grande ammiraglio, Muezzinzadè Alì pascià, è Uccialì che gli  succede. Il sultano Selim II lo nomina capitano del Mare, gli conferisce il generalato del Mare, che comporta – come spiegano meticolosamente i diplomatici veneziani – “l’assoluto governo” dell’arsenale, la cura esclusiva, tutta dell’armata marittima, nonché il governo di Pera, Gallipoli e dei sei sangiaccati di Rodi, Metelino, Scio, Lepanto, Negroponte, Prevesa. E a valorizzare la carica il cambio – sempre voluto dal sultano – del nome.

Non più Ouloudj – dall’arabo ‘ildj, che significa barbaro, straniero e, anche, zotico – ma Kilic Alì o Kilige-Alì o Quìlìǧ ‘Alī o, ancora, Kĭlĭdi Ali. E kĭlĭdi, in arabo, significa sciabola, spada.

Ormai ricchissimo intraprende la costruzione della propria dimora : “un grande casale”, da lui chiamato “Nova Calavria” ove “dà habitatione alli suoi schiavi che lo hanno servito et li ha fatti liberi et maritati lasciandoli viver cristiani con un prete che gli ha dato che era schiavo anche lui… Et li lascia far qual arte gli piace”, non senza impiegarne parecchi in arsenale e, in ogni caso, donando “a tutti il pane per suo uso”. Anche benefattore il nostro pirata che, stando al bailo Lorenzo Bernardo, è sì “homo crudelissimo et talmente colerico” sì da non poterlo contraddire, ma è anche “liberal”, munifico e pure assennato se i “grandi di questa Porta” a lui ricorrono come arbitro nei loro “dispareri”. Animato – ancorché vecchio – da una gran voglia di vivere, certo non si nega i piaceri dei sensi. Morirà il 27 giugno del 1587 dopo una vita così avventurosa che non sarebbe male farci la sceneggiatura di un bel film.

Gianvittorio Musante