Libri. Il nuovo romanzo di Igor Patruno, “I campi di maggio”, sulla Roma anni ’70. L’intervista

Giornalista e scrittore romano, nonchè direttore di collane editoriali, Igor Patruno ha da poco pubblicato per l’Editore Ponte San Sisto il suo ultimo romanzo “I campi di maggio”, un affresco storico che sa di diretta testimonianza sugli anni ’70 capitolini. Lo incontriamo per discuterne.

Come è nata l’idea di scrivere “I campi di maggio”

Nell’estate del 1985 iniziai a buttare giù un romanzo ambientato a Roma negli anni Settanta. Raccontava la storia di una giovane terrorista che veniva uccisa in un agguato. Si trattava di una vicenda totalmente immaginaria che affrontava il tema della violenza come reazione all’ingiustizia. Il manoscritto restò incompiuto perché sentivo che mancava qualcosa, anche se all’epoca non sapevo cosa. Negli anni successivi ho continuato ad accumulare documentazione su quel periodo storico e a leggere tutti i romanzi che avessero quell’argomento.

Qualche titolo?

Intanto va detto che, nella narrativa italiana, sul cuore dei Settanta c’è stato un silenzio lungo venti anni. Come se non si riuscisse a violarne il rimosso. Nanni Balestrini aveva scritto “La violenza illustrata” da dentro il decennio, ma con un linguaggio difficile, troppo sperimentale per coinvolgermi emotivamente. Per i primi romanzi occorre aspettare il nuovo secolo. Ricordo “Il paese delle meraviglie” di Giuseppe Culicchia, “La guerra di Nora” di Antonella Tavassi, “Tuo figlio” di Gian Mario Villalta, “Tornavamo dal mare” di Luca Doninelli e altri. Da lettore dico che non mi sono piaciuti. Troppo anestetizzati. Non ci ho ritrovato il sapore della mia giovinezza. Più interessanti “Il passato davanti a noi” di Bruno Arpaia, “La Banda Bellini” di Marco Philopat e “Tempo materiale” di Giorgio Vasta, anche se hanno l’ambizione di voler essere romanzi generazionali scritti in ritardo. Il problema è che la nostra generazione non ha avuto il suo Werther, perché il Werther si può scrivere solo da giovani e dentro gli eventi, Wolfgang Goethe aveva 22 anni quando iniziò a scriverlo. Molto interessante “Prima esecuzione” di Domenico Starnone, che è un metaromanzo sull’impossibilità di scrivere un romanzo sulla violenza come risposta all’ingiustizia del mondo. Infine in molti passaggi dei romanzi di Erri De Luca ho avvertito forte l’odore di quegli anni, così come ho ritrovato certe atmosfere dei Settanta nelle “Lettere a nessuno” di Antonio Moresco.

Torniamo alla genesi de “I campi di maggio”

Quando ho iniziato a scriverlo, nel 2005, ho capito che non sarebbe bastato raccontare una storia di fantasia per dare spessore esistenziale ai personaggi. Lentamente ha preso corpo l’idea di concentrare l’attenzione su personaggi reali, ma minori, immaginando di essere accanto a loro mentre vivevano gli eventi tumultuosi della Storia, ma anche quelli intimi e personali. Questo mi ha permesso di raccontare la seconda metà dei Settanta attraverso una miriade di voci e di sguardi. Terminata la prima stesura ho scoperto che avevo tracciato solo i fondali della storia, mancavano le scene in primo piano. Tra le tante vicende che mi erano rimaste dentro ho scelto quelle di Andrea P. e Silvana R., due giovani uccisi nel 1975 in circostanze mai chiarite. Secondo le cronache dell’epoca entrambi avrebbero avuto legami con i Nuclei Armati Proletari. Ho chiesto alla Procura di Roma l’accesso agli atti delle inchieste e ho intrecciato la loro storia vera a quella di un personaggio immaginario, Antonio Delle Piane, un giornalista che decide di tornare dentro gli anni della sua giovinezza per indagare su quelle morti. Quindi ho riscritto il romanzo sviluppando la narrazione in prima persona, su due piani temporali. Il piano del presente di Antonio, che coincide con il presente del lettore, e il piano del suo passato, nel quale si ripercorrono eventi accaduti tra il 1974 e il 1980.

Sei riuscito a capire cosa è accaduto davvero ad Andrea e Silvana?

Antonio alla fine una idea se la fa, ma non voglio svelarla perché credo che, dopo aver letto il libro, ognuno sarà in grado di farsi una propria idea su cosa è accaduto.

Antonio Delle Piane è il tuo alter ego?

Antonio è il personaggio narrante, gli altri sono personaggi narrati. Per quanto abbia dato a tutti una voce e uno sguardo propri, Antonio resta il narratore della storia. Poiché la scrittura penetra la vita reale l’interscambio tra finzione e realtà era inevitabile, così come lo era quello tra invenzione e autobiografia. Quindi la risposta è sì, l’io narrante del romanzo condivide con lo scrittore dati biografici e, quindi, esperienze di vita.

Qualche problema con la nostalgia per i tuoi anni giovanili ce lo avrai avuto?

La nostalgia, mentre scrivevo, l’ho incontrata tante volte, l’ho riconosciuta e me ne sono liberato. I due piani narrativi del romanzo mi hanno permesso di gestirla. Nel presente Antonio è troppo preso dalla ricerca della verità per lasciare spazio alla nostalgia. Quando, invece, racconta il passato Antonio è dentro gli eventi, dentro i suoi amori, dentro i rapporti con gli altri. Quando c’è la vita non c’è nostalgia.

A questo punto devo chiedertelo: cos’è per te la scrittura?

La scrittura cerca il senso dell’esistenza ponendo quelle domande che nel fragore caotico e spesso insensato della nostra quotidianità non trovano spazio. La scrittura, quando è davvero tale, permette di andare oltre ciò che siamo costretti ad essere, mostrando ciò che avremmo potuto essere, o che potremmo essere. Nessuna pretesa di dare giudizi morali, o storici. La scrittura racconta, spesso elaborando il ricordo. Narrare il ricordo però non può essere un restare attaccati al passato, con la testa volta all’indietro, piuttosto è un fendere quel che resta nella memoria svelando quel che manca, che sfugge, che resta nascosto. Tutto ciò ancora non basta. Uno scrittore deve essere capace di coinvolgere il lettore, altrimenti il suo lavoro è inutile

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Ne “I campi di maggio”, racconti qualcosa a proposito della morte di Pier Paolo Pasolini. Dei fatti accaduti quella notte all’Idroscalo di Ostia molto è rimasto nascosto…

Una mattina di maggio, una di quelle mattine nelle quali tutti sembrano avere una direzione, un proposito, un impegno e ti passano accanto senza guardarti, quasi fossi un elemento superfluo del paesaggio, vidi uscire dal commissariato di zona una figura esile: sguardo basso, passo lento, andamento incerto. Non aveva un luogo preciso da raggiungere, o qualcuno che lo stesse aspettando, non aveva un lavoro, né l’ambizione di trovarselo. Un compagno d’infanzia e di strada, di partitelle giocate su campetti sterrati, di corse a perdifiato. Entrava e usciva di galera come per un’abitudine difficile da estirpare. Lo fermai, lo salutai e raggiungemmo, a piedi, il bar Valentini a via Torpignattara. Quando, sorseggiando un caffè, gli chiesi di Pino Pelosi, lo sguardo spento venne attraversato da un guizzo indecifrabile e dopo un attimo di smarrimento iniziò a raccontare. Nell’ambiente della malavita romana tanti s’erano fatti un idea precisa di come era andata all’Idroscalo. Lui ne sapeva qualcosa in più perché conosceva Pelosi, perché quella sera di novembre vagava per i giardinetti della Stazione Termini, perché era stato un marchettaro.

E cosa ha raccontato?

Ti riporto le parole esatte: “Pino Pelosi invece de Rana sarebbe da chiamà Esca”. Insomma mi disse chiaramente che a Pasolini era stato teso un agguato e che nel mondo della malavita romana lo si sapeva da sempre.

Un’ultima domanda: cosa pensi degli anni di piombo?

Non mi piace l’espressione “anni di piombo” perché riduce tutto alla violenza, che pure c’è stata, tenendo fuori la vita, cancellando i sogni e relegando la giovinezza di un’intera generazione nel rimosso di una nazione. A proposito di quelli che andarono oltre ti rispondo con un brano del mio romanzo. “Ho riflettuto molto in quegli anni, ma anche dopo, sulla scelta di combattere una guerra vera con la presunzione di essere nel giusto. Sapevo già allora che sbagliavano a pensare di essere in tanti. La maggior parte dei loro coetanei nemmeno li capivano tutti quei comunicati lasciati accanto ai cadaveri. Qualche omicidio eccellente non avrebbe potuto far crollare un sistema basato sulla assoluta intercambiabilità dei protagonisti. Ma ero, e resto, affascinato dal fatto che alcune decine di migliaia di ragazzi, perché di ragazzi si trattava, irruppero nella Storia, convinti di poterne mutare il corso”.

(l.g.)