La nota. Indietro tutta, ovvero il renzismo di “don” Matteo. I pericoli del leaderismo populista

Ha raccattato scorie della defunta Dc, ha radunato con la lusinga di passepartout che concedono l’accesso a stanze e poltrone di potere, ha inglobato miglioristi, Napolitano in testa, ha contratto alleanze che avrebbero indotto all’espulsione i compagni dell’Unità porta a porta, domenica e feste comandate incluse, quelli della politica per passione, i tanti comunisti forgiati dalle lotte operaie, i quadri formati con rigore (stavo per dire ecclesiale) alle  scuole di partito; ha cinicamente ammesso alla partnership di governo gente che ha qualche ragione di esistere solo per contiguità parassita con il popolo della conservazione, che rema contro ogni progetto di adeguare l’Italia ai paesi più evoluti in tema di diritti civili, multietnicità, rispetto di religioni non cattoliche, unioni gay, laicità contrapposta alle ingerenze della Chiesa nelle vicende di casa nostra.

Ha, ha, ha…ma chi? Naturalmente il ragazzo con trascorsi da oratorio, poi democristiano e nel momento del crac della Dc saltato sul carro della sinistra in cerca di identità post Berlinguer, per guidarla incontro al sussurrato ma periodicamente emergente Partito della Nazione, un micidiale ibrido di sinistra moderata, centrodestra dei “vado dove mi porta il potere”, opportunisti privi di scrupoli, di Verdini e affini e di chi sta anche più a destra, di cani sciolti affetti da libidine parlamentare, di un mestiere ben remunerato, poco faticoso e promettente, per molti porta d’ingresso per  partecipare al banchetto della corruzione. Renzi imperante, il mondo del lavoro, faticosamente approdato a garanzie di tutela, si è visto scippare l’articolo 18, gli attacchi al sindacato hanno marciato in parallelo con il flirt con la Confindustria, che ha ricambiato con sommo piacere. E’ passata l’anomalia del doppio ruolo (segretario e premier), preso in carico con il fine evidente di ottenere dal partito il consenso agli atti di governo.

I dem vincenti hanno frantumato la sinistra, incapace di gestire la rivoluzione moderata tessuta da Renzi con maestria che ricorda l’abilità della Dc  dei De Mita, Fanfani, Andreotti, di Moro, che da esperto stratega anticipò i tempi del crac interno al partito con la strategia delle convergenze parallele e la magia del compromesso storico, primo passo del gambero della sinistra, in arretramento ideologico. Sono archeologia politica i tempi del Pci che pagava i dirigenti come metalmeccanici, vietava la propaganda elettorale ad personam, mandava davanti ai probiviri gli iscritti responsabili di comportamenti poco corretti. Il nuovo del renzismo, prima in fase di rodaggio, poi a pieno regime, ha finito per ampliare ai dem il campo d’azione della magistratura per il crescendo di  casi di corruzione, protagonisti esponenti Dem. E le minoranze, i Bersani, Cuperlo, Speranza, insomma l’antagonismo dentro le mura del Nazareno? Fassina ha scelto la fuoriuscita e la velleitaria candidatura a sindaco di Roma con una lista personale, ovviamente bocciata con una misera manciata di voti dai romani, a conferma che il popolo della sinistra storica è svanito nelle nebbie del riformismo edulcorato. Gli altri annaspano, teste fondanti del no a qualunque atto formale o sostanziale del governo. Escono dall’aula parlamentare, emuli delle performance a favore di telecamere che periodicamente mobilitano la destra; si uniscono a tratti al coro di insolenze caciaresche dei grillini con giudizi tranchant antiRenzi scarsamente legittimati. A chiarire che aria tiri nel corpo ribollente del Pd  ci pensa D’Alema. Incattivito per la marginalità subita nel disegno strumentale  della rottamazione, inviperito per la bocciatura che lo ha escluso dal prestigioso ruolo di ministro europeo degli esteri, accumula quantità patologiche di bile e assume l’incarico di detrattore di Renzi. Clamoroso l’incidente di percorso in casa “Che tempo che fa”, contemporaneo al voto per le regionali. A un niente dall’apertura delle urne getta fango a profusione sulla candidatura di Niki Vendola a governatore della Puglia, sostenuto dal premier e segretario del partito. Gli va malissimo e probabilmente il leader di Sinistra e Libertà è  eletto anche grazie all’indignazione per l’attacco proditorio alla sua persona.

Da quella fase di accesa velenosità D’Alema è diventato nell’indifferenza dell’intera compagine Dem il più agguerrito e aggressivo alleato delle opposizioni e da ultimo, si può giurare, a prescindere da valutazioni politiche, il paladino esplicito, della crociata “No” al referendum per le riforme istituzionali. Non è questo lo spazio per rappresentare le ragioni del sì e del no, ma è dirompente la conferma dell’astio personale di un ex leader indotto ad acrimonia per l’esclusione dal “direttorio” Pd. Negli anni del Pci il disfattismo improduttivo delle attuali minoranze Pd sarebbe sfociato in scissione, nel tentativo di recuperare all’esterno i valori della sinistra ingraiana. Il risultato della contrapposizione sterile interna ai Dem, è invece in infecondo stallo, il poco che rimane della sinistra, il via libera al fenomeno indecente del populismo inventato come una gag da spettacolo comico da Grillo, gestito da goliardi della politica che incredibilmente competono alla pari con il Pd. Conclusione: la rissa su urgenza e forme della legge elettorale alimenta lo sconcerto degli italiani che vorrebbero capirci qualcosa. Italicum, mattarellum, il neo verdinellum, tutto e il contrario di tutto, tengono alla gogna il sistema politico di un Paese che si lacera attorno a questioni di lana caprina, in contemporanea con l’economia che stenta a uscire dal baratro della crisi, la piaga delle disoccupazione, un sistema produttivo asfittico, l’inerzia innovativa, il buco nero della ricerca, la modestia del welfare, il dilagare della corruzione, la farraginosità del marasma burocratico, le mafie infiltrate nell’intero tessuto economico e finanziario del Paese, la sterile litigiosità della politica, frazionata in rivoli del parassitismo, i due terzi dei vertici  sindacali indagati per viaggi di piacere pagati con il soldi dei lavoratori, il neofascismo razzista della Lega, la presenza sofferta e in larga parte subordinata al duopolio Merkel-Hollande. Il nebuloso futuro del Paese è in bilico sulla testa delle giovani generazioni, spada di Damocle che pronostica buio pesto per il loro futuro.  Si salvi chi può, in un contesto mondiale di guerre mistificate come ostilità religiose e culturali per nascondere il neocolonialismo famelico dei ricchi del mondo decisi a perpetuare la rapina delle risorse energetiche di chi le possiede, con l’ignobile alibi di una generosa strategia tesa a esportare la democrazia, a cui l’Italia partecipa in via diretta, con l’invio di soldati e concessione di basi per i bombardieri Usa e indiretta con la diplomazia prudente e timida nei confronti di Paesi “economicamente interessanti”.

Il caso Regeni è l’emblema della  sospetta prudenza nel pretendere la verità. l’Egitto ci prende in giro ancora a tempo scaduto, l’Italia finge di pretendere che il Cairo confessi l’omicidio con torture dei suoi servizi segreti e non succede nulla se non la conferma che l’interesse per non inquinare accordi e rapporti prevale su tutto.  L’ultima di Renzi appartiene di diritto alla disinvoltura nell’innestare la retromarcia. Come definirla? Una smargiassata in puro stile Dc, un’esca avvelenata in punta di amo per catturare la benevolenza di quanti trarrebbero profitto dalla realizzazione dell’opera faraonica e degli italiani offuscati dall’idea patriottica di esibire il ponte a unica campata più lungo del mondo. Il colpo di scena di evidente natura pre-referendaria cancella brutalmente la precedente esternazione contro. Diceva: “Vogliamo un  Paese che preferisca la banda larga al ponte sullo Stretto, che dica no al consumo del suolo”. Il dietro front è avvenuto in  corso di visita all’Impregilo, condito da solito boccone appetitoso lanciato all’Italia affamata di lavoro. “Centomila posti con il ponte” ha declamato Renzi. Finora l’ipotesi di ponte è costata 350 milioni, senza nemmeno un colpo di piccone, una trivellazione preparatoria: l’attendibile previsione di rimborso all’Impregilo per eventuale revoca dell’appalto, indica la cifra di un miliardo e duecento milioni di euro. Per dire dell’imperizia nella fase che ha preceduto la decisione definitiva se fare o no fare l’opera. Sullo sfondo il ripetuto lamento sullo stato di marginalità della Sicilia e in  particolare delle condizioni da terzo mondo della rete ferroviaria che serve l’isola, all’insegna del totale disagio, dell’inefficienza, della precarietà. Che sia un’emergenza è condiviso da tutti. E che dire del dramma di popolazioni prive dell’elemento fondamentale dell’acqua, di altre urgenze e priorità? Di là dalle riserve sull’ingegneria impegnata nell’opera gigantesca, tutta da verificare,  e dalla cifra stratosferica necessaria per realizzare il famigerato Ponte sullo Stretto, l’idea era stata accantonata con buona ragione. Si possono dunque immaginare le pressioni su Renzi per l’inversione di tendenza che gli fa dire “Il ponte si farà”.

L’annuncio cade per caso in questa stagione di fibrillazioni per il si o il no alle riforme costituzionali? Assolutamente no. Coincide con l’incontro per la celebrazione dei cento anni del gruppo industriale Salini-Impregilo.  “Togliere la Calabria dall’isolamento e far sì che la Sicilia sia più vicina” ha pomposamente dichiarato Renzi. Una berlusconata e non una parola sullo stato delle ferrovie siciliane e sul dramma della sete per zone diseredate dell’Isola. Ma di più, prima del Ponte, lo ricorda con abituale acume Michele Serra, la sicurezza di edifici pubblici e case nelle zone ad alto rischio sismico, gli interventi per prevenire il dissesto idrogeologico, rigenerato le ferrovie secondarie, completato le opere incompiute, realizzato la riforestazione di territori deforestizzati, e chi più ne ha più ne metta. E chissà se dopo aver soddisfatto a tutte queste emergenze, ci sarà ancora un euro per unire Calabria e Sicilia con il mega ponte sullo Stretto.

L’ultima di “don Matteo” arriva fresca, fresca da Perugia in  corso di comizio pro “sì”. Renzi, senza filtro annuncia l’invito al popolo della destra di unirsi alla quota dem di supporter che presumibilmente voteranno yes al referendum. E’ solo la coda di una serie di opzioni d’avvicinamento al mondo della moderazione, del centrodestra,  di Forza Italia, segnalato dalla captatio benevolentiae rivolta con sempre maggior frequenza dal vetusto Berlusconi al Renzi del patto a suo tempo stipulato al Nazareno. E’ il prodromo del cosiddetto partito della Nazione?

Luciano Scateni