Il silenzio è una preghiera che rimane a fare gesti anche quando te ne sei andato

“Nella vita di un uomo, a volte, le ore diventano silenzi. Era seduto sulla panchina della sua città, in attesa di un nuovo ciclo di fermate della linea 118, in direzione casa, e pensava alla donna incontrata quella mattina al bar.

– Lei crede di conoscermi?
– Non direi, è la prima volta che la incontro!
– Può capitare di riconoscersi, no?
– Non tutti i giorni, me lo lasci dire…

Due battute, e poi di quel volto diafano, comparso all’improvviso, dietro il gusto di un caffè ancora tutto da girare, così, senza soluzione di continuità, di quella donna senza età non rimaneva che un odore familiare. Non si erano sfiorati, non si erano toccati, e di lei sentiva tutto.
Come se in piccole e grandi parti di sé, quella donna avesse da sempre abitato, come se ogni parola spesa fino a quel giorno, non fosse stato che vano esercizio mentale, e che valesse la pena rimanere muti, per ascoltare soltanto il senso pieno di uno spazio vuoto.
Quello in cui prima lei non c’era, quello in cui si sta soli, quello che ognuno di noi ha dentro per conoscersi attraverso i propri pensieri. In un’intimità così profonda e labile, una manciata di secondi e una virata, in senso diametralmente opposto, al tragitto verso casa, un uomo quel giorno viaggiava in se stesso. A volte, il senso di chi compie il nostro stesso cammino, è proprio questo: un là che ci accorda su ragioni del nostro sentire fino a quel momento presagite, eppure tralasciate.
Perché un uomo solo su una panchina, in un giorno qualunque della sua vita possa, insistentemente, pensare ad una donna dall’altra parte della città, o magari vicina, dietro le foglie e i rami delle sue osservazioni senza meta, a due centimetri dalle sue verità…? Perché una donna possa provare la sensazione di conoscere un uomo, a prima vista, in un giorno qualunque di un solito bar, e poi svanire dietro l’incertezza di non rivedersi più…?

Perché esistono stadi e gradi di conoscenza che hanno a che fare solo con l’acqua e si chiamano: immersioni.

Un uomo e una donna che non si conoscono oggi si pensano e questa straordinaria energia passa attraverso un mare di emozioni senza voce.
Dentro c’è uno spazio che il tempo non può scandire.
Fuori c’è un tempo che lo spazio non può contenere.
In tutto ciò che nutre l’anima,
in ogni anfratto della nostra coscienza,
c’è un desiderio di assenza.

Sulla panchina e in qualche punto della stessa città, in un giorno qualunque, due dimensioni parallele s’incontrano, nello spazio bianco delle ore.”

Rileggendo il brano “Immersioni” oggi mi chiedo: e se quelle due persone fossero persone sorde? O lo fosse almeno uno dei due, cosa accadrebbe di diverso?Nel pensiero reciproco non vi sarà alcuna differenza, si colorerà di altre immagini, diverse, nella stessa misura in cui ognuno di noi ha una propria fantasia e profondità d’animo. Eppure lo stesso dialogo non si declinerebbe in questo modo, si arricchirebbe di sguardi, gesti, incomprensioni forse, centimetri di esistenze…Questo senso sprecato dell’abitudine a considerarci persone d’orecchio, spesso ci fa tralasciare proprio le emozioni più forti, quelle che attraversano strati multiformi dei nostri abissi, in cui si radica il nostro essere. La lingua dei segni italiana apre le prospettive a sensibilità del tutto naturali, è un concetto così difficile da comprendere, eppure così evidente nella sua categorica permanenza. Chi sa esprimersi con tutto il proprio corpo, e parlo di chi impara la lingua pur non avendo la necessità, perché persona udente, esplora semplicemente altri canali di percezione, perché chiuderli all’esperienziale che ci accomuna come esseri umani?

Questo frammento di testo, una possibile visione di un incontro tra sconosciuti è solo il là su cui si accordano le visioni dell’altro e allora ho chiesto a Giancarlo Sanfilippo, regista di Sperimentalis, (che è possibile vedere al seguente link https://vimeo.com/108886797) con cui abbiamo realizzato il corto partendo da queste stesse note di estraneità, rispetto alla lingua dei segni, cosa fosse il silenzio…Ora, a distanza di tempo dalla realizzazione del cortometraggio, ora che è lontano, che lavora altrove, ora che da quel profondo  “mi” ha scritto una poesia:

“Il silenzio è una preghiera che rimane a fare gesti anche quando te ne sei andato.

Sono mani giunte che spostano i capelli, che abbracciano le parole che tappano le labbra a megafono sguaiato.

È un qualcosa che non si può capire, si può solo ascoltare, il rumore zitto del cuore che batte nel compleanno dell’ultimo amore.”

Si può essere estranei in tutto e appartenere allo stesso silenzio.

Nadia Lisanti

( foto di Nadia Lisanti)