Esce oggi 6 ottobre nelle sale cinematografiche “La verità sta in cielo”, di Roberta Faenza, che pone al centro del sequestro Orlandi il ruolo avuto dalla banda della Magliana. In questo intervento per “L’ora legale” uno dei maggiori esperti della vicenda, il giornalista del Corriere della Sera Fabrizio Peronaci, autore dei volumi “Mia sorella Emanuela” (con Pietro Orlandi, 2011) e “Il Ganglio” (2014), propone, sulla base delle risultanze istruttorie, una chiave di lettura diversa, fondata sul ricatto politico e sulle lotte all’ombra del Vaticano al tempo della Guerra Fredda.
Emanuela Orlandi e Mirella Gregori erano due quindicenni allegre e spensierate quando correva l’anno 1983 e, per via della differente nazionalità, la prima vaticana e la seconda italiana, furono coinvolte contro la loro volontà in un bruttissimo intrigo.
All’ombra del Vaticano, operava infatti un gruppo di pressione potente e senza scrupoli, avverso alle scelte della Santa Sede. Questa lobby, vicina alle posizioni della cosiddetta Ostpolitik, aveva interesse ad esercitare ricatti per influenzare la politica di quegli anni. In particolare, l’obiettivo era contrastare l’anticomunismo del primo papa venuto dall’Est, così da mantenere il dialogo con la Russia e gli altri regimi comunisti. Di storie terribili ve n’erano già state: un pontefice famoso per il suo sorriso qualche anno prima era morto in circostanze sospette (1978); il papa polacco aveva sfiorato la morte in un attentato (1981); un banchiere cattolico era stato trovato impiccato a Londra (1982). Non è quindi strano che, nella lotta sotterranea di cui discutevano tutti e oggi parlano anche i libri di storia, qualcuno continuasse ad avere cattivi pensieri.
Purtroppo, dopo che per mesi furono pedinate altre due ragazze, figlie di cittadini importanti dello Stato vaticano (1), nel mirino finì Emanuela, che era anche lei figlia di un dipendente del Papa.
Purtroppo, a causa di una singolare coincidenza, legata a un vicino di casa (2), per la sua cittadinanza italiana fu scelta Mirella.
I rapitori, che avevano collegamenti con ambienti ecclesiastici, riuscirono a stabilire un contatto con le due ragazze con l’intento di farle allontanare per qualche tempo, più a lungo Mirella (che sparì il 7 maggio), solo per qualche giorno Emanuela (che non rincasò il 22 giugno), in modo da poter utilizzare la loro scomparsa per regolare un po’ di conti interni.
Uno di questi rapitori era un giovane dalla parlantina sciolta (3), di 27 anni, fotografo con ambizioni artistiche, che aveva frequentato la scuola dei preti in un istituto famoso (4), diretto da un prelato importante (5), braccio destro di un cardinale (6) che era di fatto il numero due dello Stato Città del Vaticano. Fu lui, in base alle sue stesse rivelazioni poste a verbale, a indurre sia Emanuela sia Mirella in un tranello, dicendo loro che dovevano allontanarsi da casa e che in famiglia non si sarebbero arrabbiati, anzi, la cosa si doveva fare perché i loro papà erano sotto ricatto per problemi di lavoro e finanziari. Tanto tutto sarebbe finito presto – era questa la promessa – e stare fuori di casa qualche giorno sarebbe stato come un gioco.
Emanuela e Mirella sparirono dunque in assenza di un atto brutale, violento. E ciò corrisponde con quanto già si sapeva: fu un rapimento anomalo, inizialmente un finto rapimento. Le ragazze vennero irretite, convinte a non rincasare con una scusa. Limitatamente alle prime ore, ci fu una tragica sottovalutazione del pericolo. Caddero in una trappola, questa è la triste storia, ma subito dopo qualcuno le privò della libertà impedendogli di tornare a casa, e anche questa è una certezza.
Quando, a partire dal 22 giugno 1983, anche la seconda ragazza, Emanuela, si trovò “nella disponibilità” dei sequestratori tutto procedette in modo abbastanza logico, lineare. Contesto e movente del sequestro Orlandi-Gregori, in base alle novità dell’inchiesta recente, sono stati ormai chiariti. Basta seguire quel che è successo, svelando i fatti uno ad uno.
La lobby che contrastava il papa polacco e il suo anticomunismo, tanto per cominciare, voleva impedire che il terrorista di piazza San Pietro (7) continuasse ad accusare alcuni funzionari dei servizi segreti della Bulgaria (8) di complicità nell’attentato da lui compiuto contro il Papa il 13 maggio 1981 (9). Queste accuse erano infondate, si trattava di una “imbeccata” ideata dagli Usa e dal fronte occidentale per sferrare l’attacco finale della Guerra fredda, ribattevano quelli della Ostpolitik, e quindi la prima cosa da fare era impedire al “lupo grigio” di continuare ad accusare i bulgari. Come? Con il ricatto al tempo stesso più semplice e di maggiore presa nell’opinione pubblica: mettere sul “piatto della bilancia” la sorte di una ragazzina, la figlia di un umile collaboratore del Papa, Ettore, il messo pontificio con l’hobby della pesca e cinque figli da crescere.
E così accadde: nessuno – neanche i superesperti di intelligence – ci capì niente, quando nei primi comunicati i rapitori parlarono di scambio tra Emanuela e il turco, però le trattative sotterranee erano in corso, tanto che il 28 giugno, solo sei giorni dopo la scomparsa, accadde un fatto rivelatore: Alì Agca, del tutto inaspettatamente, ritrattò le accuse ai funzionari dell’Est, facendo cadere la pista bulgara, la qual cosa era esattamente ciò che volevano gli uomini, in tonaca e non, legati al gruppo denominato il “Ganglio”.
Ma lo si può considerare provato, tutto questo? Anche qui, la risposta è nelle risultanze istruttorie. Sì, certo. Perché finalmente, tanti anni dopo, si è fatto avanti un personaggio, quel fotografo di 27 anni egocentrico e presuntuoso, cresciuto in ambienti religiosi, figlio di un esponente della massoneria (10), il quale (non per scrupoli di coscienza, ma per motivi di depistaggio e/o per conto di qualcuno) dal 2013 ha deciso di raccontare alla Procura di Roma (11) molti dettagli inediti e inconfutabili sul caso Orlandi-Gregori.
Lui sostiene di aver attratto personalmente Emanuela e Mirella nella macchinazione, ma come lo dimostra? Ecco, questo è stato esattamente il lavoro che ha impegnato duramente un magistrato di grande esperienza (12), poi estromesso dall’indagine dal suo superiore (13). Negli anni 2013-2105 il fotografo dalla faccia antipatica (già, proprio così, i rapitori devono essere forse simpatici?) di prove importanti, meritevoli di essere vagliate da una Corte d’assise, ne ha portate parecchie. Solo che mica gli hanno dato ascolto, anzi: è stato accusato di essere talmente scemo da autoaccusarsi, trent’anni dopo, di un reato grave che, se appurato, lo porterebbe all’ergastolo. Strano, sembra un maleficio… Finalmente si presenta uno degli imprendibili rapitori cercati da un terzo di secolo ma, dopo averlo ascoltato, preso appunti, compreso che quanto racconta ha un fondamento, lo si rimanda a casa. Libero. Per carità, signor indagato, si accomodi: vade retro!
Eppure l’uomo andrebbe preso in considerazione, se davvero, come tanti auspicano, aspira ad ottenere verità e giustizia per Emanuela e Mirella. Andrebbe non solo ascoltato, ma inchiodato alle sue responsabilità, il fotografico antipatico, ormai sessantenne. Perché, primo serissimo elemento indiziario, è stato lui ad aver fatto ritrovare il flauto che i familiari hanno riconosciuto come quello di Emanuela, con tanto di custodia con il velluto rosso, incartato in un giornale ingiallito del 1985, che non è mica tanto facile da riprodurre. Ed è inutile aggrapparsi ai cavilli, o alle mezze bugie: la perizia non ha mai escluso che quello consegnato da Accetti fosse lo strumento musicale di Emanuela, si è limitata a certificare la mancanza di tracce di saliva sufficienti a dire un sì o no definitivo.
Lo stesso personaggio, come non bastasse, ha detto: sentite la mia voce, è quella delle telefonate in Vaticano di quei giorni. I magistrati hanno controllato e scoperto che era vero. Poi ha aggiunto: ascoltate quel nastro con i gemiti di una donna, sull’altro lato ci sono io che leggo un comunicato di rivendicazione; ed era vero pure questo. Quindi ha aggiunto: perché non controllate da dove partirono le telefonate alla famiglia e ai giornali? Io vi elenco le cabine con esattezza, quelle che nessuno ha mai saputo e nessun giornale ha riportato; circostanza pure questa confermata. Inoltre ha specificato: lo sapete perché scegliemmo il codice 158 per comunicare con la Santa Sede? Nessuno l’aveva mai capito, e lui ha spiegato: perché era un messaggio diretto ai nostri interlocutori coperti, qualcosa che loro potevano capire bene, l’anagramma del mese e anno dell’attentato al papa, 5-81, maggio 1981, semplice no? Andando avanti, ha fornito la spiegazione su un’altra ventina di codici contenuti nei comunicati o nelle loro telefonate, che sembrano strani oggi, certo, ma all’epoca la Guerra Fredda la si combatteva così. Per esempio ha spiegato che il Pierluigi delle prime telefonate a casa di Emanuela non era un nome a caso, ma era stato scelto perché richiamava l’alto prelato citato in questo articolo al punto 5. Oppure che l’altro telefonista, Mario, si era qualificato con questo nome di comodo per richiamare un mafioso importante, inguaiato con i finanziamenti sporchi che passavano attraverso lo Ior (14). O, ancora, che una persona da lui ben conosciuta scrisse di suo pugno alcune lettere di rivendicazione, poi spedite da Boston da altra persona, altrettanto vicina (15). E infine, tanto per chiarire che in ballo c’erano interessi veri, sonanti (follow the money…), ha riferito che l’accordo Vaticano-Italia sulla transazione da 250 miliardi per chiudere il caso Ambrosiano era stato anticipato un anno prima in un comunicato su Emanuela (16), che di fatto, riportando in un criptico passaggio il mese di maggio 1984, dettò alla controparte i tempi dell’intesa, poi effettivamente firmata a Ginevra.
Ma Mirella, cosa c’entrava? Spiegato anche questo. La verità è nelle carte, talmente scottanti e compromettenti, che a un certo punto hanno fatto la solita, italica fine: insabbiate. Mirella fu scelta, in quanto cittadina italiana, per esercitare pressioni sul presidente Pertini, perché non si dichiarasse pubblicamente contrario alla concessione della grazia al turco, e infatti Pertini non fu insensibile al caso, intervenne pubblicamente più volte, cosa che non avrebbe mai fatto per qualsiasi altra scomparsa. E il 28 giugno Agca, intravedendo per sé un percorso possibile verso l’uscita di galera, zac: puntuale ritrattò le accuse all’Est, come nei desiderata di molti esponenti di Curia. E poi, a ben pensarci, la grazie al turco non è stata forse concessa, anche se molti anni dopo? Ciò non fa sorgere dubbi? Non potrebbe essere accaduto che, per silenziarlo, lo si sia accontentato, regalandogli una insperata libertà?
Attenzione, però: questa non è mica la storia vera, sia chiaro.
E’ solo una favola triste, un film che nessun produttore finanzierà e nessun regista metterà in scena, perché nessuno lo deve vedere.
Mica siamo obbligati a crederci, non sia mai. Sono faccende brutte, scomode, indegne. E infatti nessuno ci crede, nonostante la pletora di indizi, incastri e riscontri abbia mostrato bene come tutto iniziò, il motivo per cui Emanuela e Mirella finirono nelle rete degli intrighi, e nonostante le nitide tracce, che si è deciso scientemente di non percorrere, che porterebbero con relativa facilità all’accertamento completo dei fatti. Bastava tirare il filo: il sistema e il combinato disposti di due ragioni di Stato convergenti hanno scelto di lasciarlo cadere.
E così è destinata a restare nell’ombra (o in cielo) la fine fatta dalle ragazze, innanzitutto. E quella di un bambino nella pineta (17), morto per mano dello stesso giovanotto che contattò Emanuela e Mirella. E di una ragazzina anch’ella con la fascetta sulla fronte (18), ammazzata in un paese vicino Roma, dove aveva gli uffici un monsignore importante, nemico giurato della Ostpolitik (19). E, anni dopo, di un’altra ragazza ancora (20) che abitava dalle parti del fotografo cattivo.
Non ci volete credere? Avete ragione, suvvia. Questo è poco più di un apologo, la trama di un film sbagliato.
E’ stata tutta colpa della banda della Magliana. La verità è questa. Facile, comoda, lineare. Oppure, è già pronta in alternativa la soluzione B: le piste sono talmente tante che si equivalgono, tanto vale tenerle in piedi tutte. Lo dice anche la televisione, lo racconta adesso anche un film vero, bello, intenso, commovente. E così sia.
Fabrizio Peronaci
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(1) Le figlie adolescenti di Angelo Gugel, aiutante di camera del papa, e di Camillo Cibin, capo della Gendarmeria
(2) Raoul Bonarelli, all’epoca vicecapo della vigilanza vaticana e residente in via Alessandria, a poche decine di metri da casa Gregori in via Nomentana. Indagato in relazione al doppio sequestro, è stato prosciolto. Negli anni Novanta la Santa Sede gli ha concesso la cittadinanza vaticana
(3) Marco Accetti, nato a Tripoli il 7 novembre 1955, condannato per l’omicidio stradale di Josè Garramon (dicembre 1983), reo confesso per il sequestro Orlandi-Gregori, inizialmente indagato per duplice sequestro di persona aggravato dalla morte degli ostaggi, poi prosciolto e oggi in attesa di processo per i reati di calunnia e autocalunnia
(4) San Giuseppe de Merode, piazza di Spagna, Roma
(5) Pierluigi Celata, direttore spirituale del De Merode
(6) Agostino Casaroli, Segretario di Stato vaticano negli anni Ottanta
(7) Alì Agca, condannato all’ergastolo e poi graziato (nel 2000) per l’attentato a Karol Wojtyla del 13 maggio 1981
(8) Sergei Antonov (caposcalo alla Balkan Air), Todor Ayvazov e Jelio Vassilev (cassiere e addetto militare dell’ambasciata di Bulgaria) imputati nel processo per l’attentato al Papa, assolti
(9) Oltre trent’anni dopo, l’unico responsabile accertato dell’attentato di piazza San Pietro è Alì Agca. Mai individuati i mandanti, o possibili collegamenti con ambienti italiani e/o vaticani
(10) Aldo Accetti, legato alla massoneria tramite l’adesione alla Loggia mediterranea, che ha avuto rapporti con Licio Gelli
(11) Marco Accetti si presentò in Procura il 27 marzo 2013, due settimane dopo le dimissioni di papa Ratzinger, e fu indagato per il sequestro dopo il terzo interrogatorio, nel maggio dello stesso anno.
(12) Giancarlo Capaldo, procuratore aggiunto di Roma, titolare delle indagini sul caso Orlandi per otto anni, prima di essere sollevato dall’inchiesta
(13) Giuseppe Pignatone, procuratore di Roma, firmatario nel 2015 della richiesta di archiviazione del caso Orlandi, accolta nei mesi successivi dal Gip
(14) Mario Aglialoro, nome di copertura di Pippo Calò negli anni di latitanza a Roma
(15) Si tratta di due donne, entrambe interrogate nella fase istruttoria dell’inchiesta Orlandi, alla luce delle rivelazioni di Marco Accetti. La Procura non ha invece disposto un confronto
(16) Comunicato scritto a fine 1983 e inviato da Boston
(17) Josè Garramon, investito e ucciso nella pineta di Castelfusano nel dicembre 1983 da un furgone guidato da Marco Accetti
(18) Kathy Skerl, uccisa a 16 anni nel gennaio 1984, per strangolamento, in una vigna alle porte di Grottaferrata
(19) Pavol Hnilica, vescovo slovacco, condannato in primo grado per la ricettazione della borsa di Roberto Calvi, presidente di una fondazione “Pro fratribus” con sede a Grottaferrata in prima linea nella concessione di finanziamenti a Solidarnosc, in Polonia
(20) Alessia Rosati, 21 anni, militante nell’estrema sinistra, scomparsa il 23 luglio 1994 a Montesacro, Roma. Marco Accetti ha dichiarato che anche questa misteriosa fine va inquadrata nei regolamenti di conti legati a ricatti e pressioni nell’ambito degli scandali nei servizi segreti esplosi negli anni Novanta (fondi neri nel Sisde). Lo stesso Accetti, nelle sue confessioni autoaccusatorie, ha definito Alessia Rosati come “l’altra Orlandi”
Nella foto: Fabrizio Peronaci e, alla sua sinistra, il regista Renzo Rossellini e Pietro Orlandi a una manifestazione a Roma
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