Era ebrea, una nota stonata per l’epoca… La mostra di Charlotte Salomon a Milano fino al 25 giugno

Fu ammessa all’Accademia delle Belle Arti di Berlino solo in via del tutto eccezionale, Charlotte Salomon era ebrea, una nota alquanto stonata per l’epoca, ma suo padre era un ex combattente del governo tedesco, quindi la commissione dell’Accademia fece uno strappo alla regola accettandola. Era il 1937 e Charlotte, studentessa e appassionata d’arte, meritò la vittoria di un concorso indetto dalla scuola, ma le preferirono un’amica che non portava il marchio dell’ebraismo. Fu talmente delusa per quel mancato riconoscimento, che abbandonò definitivamente gli studi pubblici di cui era una eccellente esponente. La famiglia dovette provvedere privatamente alla sua istruzione, incaricando un insegnante eclettico che entrò nella famiglia Salomon. In realtà era un professore di canto, un uomo poliedrico con mille interessi e altrettante attività e si chiamava “Alfred Wolfsohn”, ma aveva anche un alias, che usava quando si trasformava in altri personaggi di cui riusciva ad incarnare la personalità: attore, scrittore, musicista e interprete di teatro, “Amadeus Daberlon”, per l’arte. Seduti vicini, entrambi su un divano, sentivano una corrente, una “scossa”, una vibrazione emotiva e comunicativa e cominciarono ad amarsi. Iniziò così un affresco pittorico familiare, di cui lui sorvegliava critico l’evolversi e le personificazioni di un’ atmosfera poi definita nei quadri. Era una specie di gioco con scambi di ruoli, nomi immaginari, invenzioni momentanee, riferite al teatro, alla musica o alla famiglia di lei, che inconsapevole prestava indizi e atteggiamenti descritti da Charlotte sulla carta o sulla tela, con matite, pennelli o pastelli. Insieme, ma sotto la supervisione del professore, diedero vita ad una sorta di “operetta pittorica”, che aveva in seno anche un senso del dramma, certamente nulla che avesse riferimenti con il comico. La giovane ragazza ispirata dal maestro, in preda a quell’euforia incontenibile di creatività e sentimenti, dipinse in due anni dal 1940 al 1942 circa 1325 tra quadri, bozzetti, disegni e schizzi. Lui la incoraggiava ricordandole di sovente quel concorso di cui sarebbe dovuta essere la vincitrice. Ora queste opere sono state selezionate in numero cospicuo, 800 per l’esattezza, e, per la prima volta, 270 delle più incisive sono in mostra per la prima volta in Italia in una location d’eccezione, Palazzo Reale a Milano. La mostra si intitola” Vita? o Teatro?” Un miracolo tangibile di sopravvivenza di questi capolavori, scampati alla Schoah e all’inferno dei campi di concentramento. Una perla unica incastonata nella cornice della cultura Milanese, quella di maggior richiamo di pubblico. La mostra si divide in colori dominanti, quelli che l’artista prediligeva, il rosso, il blu e il giallo, stemperati dal candore del bianco. Il percorso della mostra si dipana in tre sezioni ” l’infanzia, la gioventù e l’epilogo da profuga “. Charlotte venne arrestata nel settembre del 1943 insieme all’austriaco Alexander Nagler, un rifugiato come lei in Francia, che era diventato suo marito; si trovavano a Villefranche sur Mer al momento dell’arresto. Furono trasferiti a Nizza e deportati poco dopo ad Auschwiz, il 7 ottobre. Lui fu mandato immediatamente ai lavori forzati dove l’anno successivo morì. Lei allora aveva solo 26 anni, era incinta di cinque mesi e con tutta probabilità dato il suo stato di donna gravida, fu presumibilmente uccisa il giorno stesso del suo arrivo al campo. Prima di quell’orrore, consegnò l’intera sua opera pittorica al dottor Moridis, un amico, raccomandandogli di averne la massima cura. In quei dipinti c’era tutta la storia della sua drammatica e breve vita. E’ stata definita la “Pittrice tedesca” con la morte alle calcagna; Hitler la volle in una camera a gas insieme alla creatura che portava in grembo. Forse in quei momenti riassunse mentalmente quel breve periodo di esistenza. Charlotte Salomon, era sempre stata una bimba preda di una malinconia profonda, che comprendeva anche uno stato di solitudine ancorato fortemente in lei e dovuto ad un albero genealogico “maledetto”. Tre persone di una importanza vitale per la sua esistenza si suicidarono: la madre, la sorella e la nonna. Magnifica e precoce artista di Accademia, riconosciuta come tale, ma giudea e, in quanto tale, senza diritti a premi di riconoscimento. Perseguitata in Germania si rifugiò in Francia, dove il destino l’acchiappò consegnandola ai Nazisti. La sua vita è stata una vicenda drammatica che si è dipanata su un filo spinato, irto e traditore, ma che ha trovato una continuità a dispetto dei santi, in quello che ci è rimasto di lei. Ogni quadro propone una lettura che permette come in uno scritto, di andare a capo per rileggere ogni riga, ogni colore, ogni espressione e ogni pennellata, fino a poter incamerare nel profondo, una narrazione così crudele e racchiuderla con delicatezza nell’anima. Forse…”Più mala vita, che teatro”, a Milano fino al 25 giugno.

Maria Grazia Vannini