Banche: le riforme raffazzonate penalizzano i risparmiatori, il ruolo della Banca d’Italia

E’ recentissima la decisione del Consiglio di Stato di sottoporre al vaglio della Corte Costituzionale taluni importanti profili della legge (n. 33/2015) di conversione del decreto legge (n. 3/2015) con il quale è stata decisa la riforma delle banche popolari, che, entro il corrente anno 2016, avrebbero dovuto necessariamente trasformarsi in società per azioni, se portatrici di un attivo patrimoniale superiore agli 8 miliardi di euro. Contestualmente lo stesso Consiglio di Stato ha sospeso alcune disposizioni del regolamento emanato da Banca d’Italia sulla disciplina del diritto di recesso.

Il rischio di creare una situazione di grave pericolo per i tantissimi azionisti delle banche popolari coinvolte nella forzata trasformazione societaria era agevolmente prevedibile. E nonostante i continui appelli alla prudenza, al buon senso politico ed al rispetto del risparmio (che è un principio costituzionale ex art. 47), la legge n. 33/2015 ha inesorabilmente ormai distrutto un sistema, ha azzerato risparmi di tantissime famiglie e imprese, soprattutto venete, ha creato un vero e proprio problema sociale, di cui nessuno sarà chiamato a rispondere. Sono improvvisamente finiti nel nulla quasi 15  miliardi di euro che imprese e famiglie avevano investito nelle azioni delle popolari venete: più o meno il costo di un terremoto di significativa magnitudo e comunque un crac di proporzioni gigantesche, ben superiore a quello di Parmalat o di qualsiasi altro disastro finanziario italiano. E non è stato ancora fatto un calcolo, in termini quantitativi, delle ripercussioni del disastro sull’intera economia del Paese (e del Nord Est, in particolare). Basterebbe pensare alle tante imprese che hanno ottenuto finanziamenti per aver concesso in garanzia azioni delle banche e che saranno ora chiamate al rientro a seguito dell’azzeramento della garanzia stessa. Ma il Veneto, abituato alla disattenzione della politica nazionale, ha reagito con la tradizionale compostezza ed ha subito la donazione di sangue senza troppo protestare (come sicuramente sarebbe avvenuto in altre parti), salvo ricordarsi della vicenda in sede di risposta al referendum, in cui i risultati hanno evidenziato una marcata sfiducia nei confronti del governo che lo aveva promosso.

Ma quando la stessa sorte stava per toccare alla Popolare di Bari ed alla Popolare di Sondrio (chiamate in questi giorni, a trasformarsi coattivamente in società per azioni, pena il ritiro della licenza bancaria) la preoccupazione è giustamente salita alle stelle. Si era cercato di infilare nel Decreto Fiscale (cioè in un contesto normativo totalmente spurio) un emendamento che elevava a 30 miliardi di euro (non più a 8) l’attivo patrimoniale oltre il quale scattava l’obbligo di mutamento della veste societaria.

E ora, il Consiglio di Stato – come si è detto – pronunciando su una serie di ricorsi, riuniti (tra cui quello proposto dall’Associazione Azionisti Veneto Banca), ha sospeso l’esecutività di una parte della circolare di Banca d’Italia ed ha rimesso alla Corte Costituzionale l’esame di conformità di alcune disposizioni della legge n. 33/2015 ai principi costituzionali.

A questo punto lo scenario è intricatissimo e non sarà di facile soluzione.

Il presidente di Assopopolari, Corrado Sforza Fogliani, ha – giustamente – chiesto al Tesoro ed alla Banca d’Italia un prolungamento del termine per la trasformazione in spa delle popolari di Bari e di Sondrio. Ma quale sarà il destino di quelle altre popolari, che, nel frattempo, hanno già deliberato, sul presupposto dell’inderogabilità del termine fissato dalla legge n.33/2015, tra cui Veneto Banca e Popolare di Vicenza?

Anzitutto, non si può evitare di rimarcare che, questo evento rappresenta,  l’ennesimo smacco per Banca d’Italia, che non ha saputo percepire neppure uno dei tanti dubbi di tenuta costituzionale dei suoi regolamenti e non è stata di alcun supporto al governo nella formazione dell’infelice riforma sulle banche popolari, che ha portato al disastro economico decine di migliaia di famiglie, cinicamente sacrificate sull’altare della “salvaguardia” del sistema bancario. La repentinità del varo della riforma (con un decreto legge convertito in legge con un voto di fiducia, proprio per annientare aprioristicamente ogni discussione e ogni dibattito) ha improvvisamente cambiato regole e logiche che duravano da 130 anni; ha ingabbiato i risparmi di migliaia di famiglie e imprese e le ha praticamente espropriate del sacrosanto diritto di recesso. E tutto ciò è avvenuto anche se nella competente commissione del Senato i dubbi sull’incostituzionalità erano stati superati solo con 12 voti contro 11; anche se ben 156 professori di economia della quasi totalità delle università italiane avevano manifestato la loro opposizione al provvedimento; anche se in tutti i Paesi europei nei quali operano banche popolari, anche più grandi e potenti di quelle italiane, nessun governo e nessuna banca centrale si sono mai sognati di cambiare di autorità, con un provvedimento legislativo, la governance delle banche popolari cooperative.

L’esponente del PD, Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio della Camera, intervistato dall’“Huffington Post” del 02-12-2016 esprime in maniera lapidaria questi concetti: “i dubbi sulla costituzionalità della riforma delle banche popolari sollevati dai soci e dalle associazioni in questi due anni sono gli stessi che dal febbraio 2015 hanno portato alcuni di noi a sottolineare, in Parlamento e nel dibattito pubblico, come fosse necessario inserire la riforma stessa del sistema, necessaria per fare ordine, in un contesto più rigoroso, caratterizzato dallo smaltimento preventivo delle sofferenze e dal consolidamento del sistema bancario. Non so quante volte in questi due anni ho personalmente scritto facendo appelli pubblici di varia natura, dopo aver tentato in tutti i modi nel 2015 di integrare la riforma che poi con una parte minoritaria del Pd non ho votato. Tra gli altri allora ricordo Stefano Fassina e Pippo Civati. Aver voluto insistere, come sempre senza ascoltare non solo i dubbi delle opposizioni ma anche quelli di molti esponenti del Pd e della stessa maggioranza, espone tutti noi oggi e lo stesso sistema bancario ad un ulteriore rischio caos.

I risparmiatori delle popolari di Bari e di Sondrio fanno bene a preoccuparsi, perché in Italia, c’è anche la grave anomalia di una Banca Centrale, che senza tanti complimenti, fa tutto da sola, operando da legislatore, da controllore, da giudice ed anche da esecutore.

La ratio sottesa, alla riforma delle banche popolari italiane era quella, suggerita dall’Europa, di aprire al mercato finanziario internazionale, rendendole contenibili. In questa prospettiva (giusta o sbagliata che sia) è ovvio che l’eliminazione del voto capitario è lo strumento principale per portare tali istituti,  nel mondo della finanza internazionale ed inserirli nel mercato globale. Il voto capitario sarebbe un legame con il territorio, che, nella prospettiva della contendibilità, costituisce un evidente ostacolo. Questo lo si capisce e lo si può anche condividere. Ma non si capisce perché debbano essere lo Stato e la Banca Centrale Europea ad imporre la decisione della globalizzazione sottraendo agli azionisti il sacrosanto diritto di scegliere il proprio destino, in autonomia. Ancora non si capisce perché un soggetto economico privato, con azionisti che tali sono diventati per aver scelto una determinata forma di investimento dei propri denari, debba necessariamente operare solo con una certa forma giuridica, decisa dallo Stato, per imposizione dall’alto e sulla base di un limite patrimoniale ( 8 miliardi di euro) del tutto arbitrario. La stessa politica sembra ora essersi resa conto del problema avendo cercato di infilare nel Decreto Fiscale una previsione di obbligo di trasformazione in virtù di patrimonio di 30 miliardi. Evidentemente è stato percepito il pericolo connesso alla previsione normativa del gennaio 2015.

Si aggiunga che la regolamentazione del diritto di recesso pensata da Banca d’Italia equivale alla sua totale negazione perché subordinare il conseguente rimborso del valore economico della partecipazione societaria al consenso della banca stessa ed al benestare di Bankitalia significa attuare un esproprio senza indennizzo che, come tale, contrasta con i principi costituzionali.

E, dunque, anche volendo condividere la decisione di varare una riforma delle banche popolari, non è assolutamente accettabile che essa sia stata varata con una legge frettolosa, pressappochista, rischiosa nell’attuazione e autoritaria nella forma.

 Con il prevedibile sacrificio economico degli azionisti, vittime cinicamente designate nell’attuazione di decisioni che passano sopra le loro teste.

Il tragico errore non è stata la decisione di intervenire sul sistema delle popolari, in sé, ma è stato il modo in cui lo si è fatto, con  arbìtri e con inosservanza delle forme. Il giurista tedesco della prima metà dell’800, Rudolph von Jhering, nella sua opera “Lo spirito del diritto romano” ha ricordato che il diritto romano ha insegnato il valore della forma, precisando: “la forma è nemica giurata dell’arbitrio e sorella gemella della libertà”.

Treviso 14 dicembre 2016

                                                                                  Giovanni Schiavon